La prova del fuoco di Obama

 

26/08/2014

 

Gianni Riotta

 

Sarebbe stato utile al presidente americano Barack Obama portare nella sua villeggiatura a Chilmark, rustico sobborgo dell’isola bene di Martha’s Vineyard, un nuovo libro da leggere, tra una partita di golf e un appello per l’ordine a Ferguson, scossa dalla morte di un afroamericano: «Reagan at Reykjavik» di Ken Adelman.

 

Stretto nella I guerra globale, con la Libia dove a sorpresa colpiscono jet egiziani e degli Emirati Arabi Uniti, Paesi che non si muovevano in passato senza il «la» di Washington, e con la Siria che vede cadere la poderosa base militare di Tabqa, strappata al regime di Assad dall’offensiva delle milizie Isis, il Presidente troverebbe ispirazione nella saga di Ronald Reagan. In Islanda, autunno 1986, i due leader Usa e Urss, Reagan e Gorbaciov, si incontrano per un summit difficile.

 

Reagan è l’uomo che ha definito la Russia «Impero del Male», Gorbaciov il capo del Pcus. A sorpresa i due uomini capiscono, per intelligenza, passione e capacità strategica al di delle opposte formazioni e divisioni ideologiche, che la Guerra Fredda è finita e occorre voltar pagina. Adelman racconta come i due statisti raggiungano una visione di accordo comune, che i collaboratori giudicano troppo avanzata, frenando. I giornali parlano di «fallimento» ma a Reykjavik cade davvero il Muro. Tutti i polemisti ricordano lo slogan «Impero del Male» di Reagan, gli storici seri ricordano la sua trionfale conferenza all’Università di Mosca del 1988, quando - tra le ovazioni degli studenti - il Presidente repubblicano risponde a chi gli chiede «La Russia è ancora Impero del Male, «No: si trattava di altri tempi, altri luoghi…».

 

Reagan sa cambiare direzione, senza abiurare sui principi, imponendo la trattativa agli avversari, concedendo, ottenendo. Quando il Presidente muore, nel 2004, il miglior elogio gli viene proprio da Gorbaciov, sul New York Times «Reagan era uomo della destrama non dogmatico, cercava il negoziato, la cooperazione. E… punto cruciale per me, aveva dietro la fiducia del popolo americano». 

 

Il presidente Obama ha sul tavolo ogni possibile opzione, la forza militare, la scaltrezza diplomatica, il boom americano dell’energia e dell’alta tecnologia, un’intelligenza formidabile e una cultura accademica che Reagan Gorbaciov, un ex attore minore di Hollywood e un grigio funzionario locale del Pcus, possedevano. Ma nei sei anni di presidenza mai ha dimostrato, finora, la capacità strategica di mutare le regole del gioco, il coraggio e il carisma per ispirare gli altri leader a seguirlo, la fede nelle proprie idee per intimidire i nemici. Soprattutto gli manca la dote che Gorbaciov riteneva più importante in un Presidente Usa: Barack Obama non gode fino in fondo della fiducia del popolo americano.

 

Ecco perché tutti gli attori in Medio Oriente, alleati, neutrali e mortali antagonisti, si sentono liberi di agire. Ue e Egitto bombardano i fondamentalisti in Libia perché Obama ha troppo oscillato tra sostegno a parole delle cosiddette «primavere arabe», via libera ai Fratelli Musulmani al Cairo, tentativo di salvare Mubarak per poi abbandonarlo. Il leader egiziano Abdel-Fattah el-Sisi, dopo un farlocco tentativo di addossare i raid ai ribelli antifondamentalisti dell’ex generale Khalifa Hifter, lascia intendere che senza il blitz l’aeroporto di Tripoli sarebbe caduto prima nelle mani delle milizie islamiche.

 

Un anno fa, stretto tra le pressioni del Parlamento inglese, di Papa Francesco e del Congresso Usa, Obama fa marcia indietro sul minacciato blitz contro Assad, malgrado il regime avesse gassato i civili. Poi rifiuta di appoggiare i ribelli filo-occidentali in Siria, come gli chiedono il senatore McCain e Hillary Clinton. Oggi è nell’angolo. Se colpisce Isis in Siria, come invoca lo Stato Maggiore militare, secondo quanto lascia intendere il pragmatico generale William Mayville, rischia di passare per «alleato» di Assad. In Siria si combatte da quattro anni, nell’indifferenza generale malgrado 200.000 morti civili, una guerra civile in conto terzi, tra Iran, Arabia Saudita, Emirati, Turchia, curdi, passando per la deriva ancestrale di odio sunniti-sciiti. La posta in gioco è: chi governa il Medio Oriente arabo? E quando Hamas si vede strappare la maschera di oltranzismo da Isis, attacca Israele, e il premier Netanyahu reagisce malgrado le preghiere del segretario di Stato Kerry, perché nel caos della regione sa che mostrarsi deboli è follia.

 

Dare tutte le colpe al presidente Obama del disastro che viviamo sarebbe ingeneroso, sbagliato e antistorico. America, Europa, arabi, israeliani, nessuno è innocente. La propaganda divide le responsabilità secondo convenienza, l’invasione dell’Iraq di Bush, le trattative fallite Israele-Palestina, i fondamentalisti terroristi, l’inanità dell’Europa, le trame di Iran, Arabia Saudita Emirati, i calcoli miopi di Erdogan in Turchia, l’oltranzismo di Putin, altro che Gorbaciov!, la ferocia di Assad. Ognuno ha il suo punto. Ma quel che si chiederebbe ora a Obama, se non è già troppo tardi, e ai suoi alleati europei, è di guardare a Bush padre, rammendare al più presto una coalizione Usa-Ue-Onu, Paesi arabi, tranquillizzare Israele e palestinesi a breve, e tagliare le unghie al nemico principale: Isis. Illudersi della pace mondiale, dell’armonia globale, dei trattati onnicomprensivi come il primo Obama porta alla paralisi dell’Obama frustrato 2014. Obiettivi modesti e concreti, non universali, sono il passo giusto: battere Isis con chiunque ci stia, poi riprendere il cammino difficile nelle direzioni, sconosciute, che si apriranno. Assad avrà il suo turno. L’ex campione di scacchi Kasparov l’ha detto alla perfezione: «Obama scopre che il prezzo di non far nulla adesso è dover far compiti sempre più difficili domani».

 

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