Vince la politica

 

GIANNI RIOTTA

 

18/10/2012

 

Come era sbagliato concludere che Obama fosse ormai battuto nella corsa per la Casa Bianca dopo il dibattito fallito a Denver, sarebbe ora precoce ritenere che abbia già vinto solo grazie al più vivace dibattito contro lo sfidante repubblicano Romney a New York. 

 

La campagna elettorale è sempre stata, e resta, aperta e i dibattiti non ne alterano le dinamiche profonde: il candidato democratico Obama in testa negli stati indecisi, soprattutto lo strategico Ohio, il rivale ex governatore del Massachusetts ad inseguire da vicino, per esempio in Pennsylvania. 

 

Un’elezione presidenziale americana, maratona che dura anni, costa oltre due miliardi di dollari (1,6 miliardi di euro), coinvolge milioni di persone, non si decide in un solo faccia a faccia. Crederlo è vezzo dei media, ma a studiare le prime analisi dei Big Data, la galassia di reazioni degli elettori raccolte da social network e blog sul web, la realtà è diversa. Il presidente Obama non è il candidato invincibile idealizzato dalla propaganda. Ha perduto in modo umiliante le elezioni parlamentari di Midterm 2010, con il Paese scontento per la crisi economica e una controversa riforma sanitaria. E, al contrario di Bill Clinton sconfitto dai radicali di Newt Gingrich nel 1994, non ha poi confortato i moderati, blindando la rielezione.

 

Con la disoccupazione all’8% un Presidente non torna alla Casa Bianca. Se Obama è ancora in corsa può esser grato a tre diversi fattori: 1) Il carisma personale e la tenacia gli hanno permesso martedì notte di rialzare la testa davanti alla base democratica; 2) La naturale riluttanza degli elettori a bocciare un Presidente al secondo mandato, solo Carter e G.H.W. Bush son caduti nel dopoguerra e Bush padre ce l’avrebbe forse fatta senza il 19% del candidato indipendente Perot; 3) La manovra economica dei 40 miliardi di dollari del banchiere centrale Bernanke, «soldi gettati dall’elicottero contro la crisi» dicono gli economisti: magari non funziona benissimo ma la sensazione che Washington aiuterà le industrie più con Obama che con un’amministrazione repubblicana.

 

Mitt Romney ha goduto nel primo dibattito dello scarto tra propaganda e realtà nocivo al Presidente. E’ un goffo Mormone, candidato della destra Tea Party, pronto a schiavizzare il 47% dei cittadini o il businessman la cui gestione del fondo Bain è stata definita dall’idolo democratico Bill Clinton «stellare», centrista che per vincere alle primarie ha sposato i luoghi comuni conservatori e che ora fa marcia indietro, su aborto, donne, pressione fiscale? Nel primo il dibattito Romney «centrista» ha smentito le caricature finendo in vantaggio. Martedì, la nuova immagine è stata ridefinita dalle dure critiche di Obama che lo ha rimesso sulla difensiva, sull’emigrazione con gli ispanici, su contraccezione, mutua, quote rosa con le donne e il ceto medio.

 

La democrazia americana esce rinvigorita dai dibattiti. Gli elettori avranno a novembre scelte chiare, due uomini diversi per personalità - era evidente, e salutare in un confronto politico, l’avversione fisica di Obama e Romney quando si avvicinavano l’un all’altro - per filosofia politica, ricetta economica, convinzioni profonde. Solo la politica estera li unisce, malgrado le chiacchiere Romney non romperà con la Cina e l’asse sul Pacifico non muterà, vedrete al dibattito finale. E’ vero, i troppi soldi che i fondi Pac investono nella campagna, dopo la recente sentenza della Corte Suprema, inquinano parte del gioco, ma alla fine ogni cittadino potrà scegliere a ragion veduta. Speriamo possa essere così, presto, anche da noi, dibattiti, primarie, trasparenza (magari con meno sprechi).

 

Riletti i dati, Obama e Romney restano dov’erano, in lieve vantaggio il Presidente, con la chance di vincere in volata il repubblicano. E’ il referendum per gli americani a farsi più nitido. Con Obama lo status quo, tanto danaro della Federal Reserve, la speranza che l’anemica ripresina finalmente smuova gli Usa dalla crisi 2008. Con Romney il salto in un’economia «Più mercato, meno stato», ma «soft» senza eccessi, con i vantaggi dell’innovazione contrapposti agli svantaggi della fine di ogni stimolo «keynesiano». Nessuno ripeta il cliché «Inutile votare tanto non cambia nulla». Come nelle elezioni tedesche e italiane del 2013 i risultati, stavolta, contano moltissimo. 

 

L’83% degli americani ha seguito il dibattito in tv, «old media» sempre vivo, il 4% solo online, ma un americano su 5 ha commentato sui social network, Facebook, Twitter, i blog mentre guardava il duello in tv. Tra gli elettori sotto i 39 anni, uno su tre ha usato il tandem tv-web, tribuna politica in diretta globale. Analizzando i Big Data, gli staff di Obama e Romney conoscono ormai nome, cognome, gusti, opinioni, letture, consumi degli elettori incerti e li raggiungono con messaggi ad hoc, costruiti per loro. Attenzione però: se gli incerti hanno l’impressione di essere «target», bersaglio di messaggi politici confezionati su misura individuale, si ribellano e reagiscono fino a cambiare idea. Nell’era della democrazia digitale la politica legge il destino elettorale nel palmo della mano dei cittadini, via Big Data, ma se eccede in invadenza la mano si fa pugno.

 

Infine una parola sulla moderatrice, Candy Crowley, giornalista che non scambia l’informazione per lotta libera nel fango, senza vezzi da pin up, capace di mettere in riga sui fatti Obama e Romney, da Bengasi a donne e lavoro. Non contano le «gaffes» dei candidati, conta che abbia fatto parlare di politica davanti a milioni di americani, che ora decideranno in libertà. Un rito che qualche snob disprezza come «Ideologia» ma il cui vero nome è «Democrazia».