La metamorfosi diplomatica di Michelle

 

Da radicale arrabbiata a "prima mamma". Sul palco parla a voce bassa, meno grinta, più diplomazia

 

Mario Calabresi

 

CHARLOTTE (NORTH CAROLINA: È salita sul palco per rassicurare il popolo democratico che suo marito non è cambiato, che il potere non ha corrotto il suo carattere e le sue convinzioni e che Barack Obama è ancora lo stesso uomo di cui si è innamorata molti anni fa, quell’uomo perso nei suoi ideali, con «la macchina talmente arrugginita che da un buco nella portiera si vedeva la strada». Ma se Obama è lo stesso, è lei, Michelle, ad essere un’altra persona.

 

Quattro anni fa, prima di arrivare alla Casa Bianca, prima di cominciare la corsa, Michelle Robinson era una donna con un credo radicale, parlava a voce alta, era ironica, tagliente, sarcastica, diceva cose dure e spiacevoli sull’America. A distinguerla dal marito era la sua storia: niente Hawaii o mamma e nonni bianchi come Barack, ma un padre operaio e la fatica di crescere nel ghetto nero di Chicago.

 

Sul palco della Convention democratica di Charlotte invece ha parlato a voce bassa - in certi momenti quasi impercettibile -, in modo gentile, suadente, da perfetta First Lady. Nel solco del modello di Laura Bush o della Hillary Clinton costretta ad abbandonare ogni sua volontà riformatrice e a ingoiare umiliazioni per salvare la presidenza del marito (quest’ultima poi si è rifatta giocando una partita politica tutta sua). Così Michelle è stata introdotta da un lungo video in cui la si vedeva con le famiglie dei soldati, con le figlie, nell’orto, mentre fa fare ginnastica ai bambini o fa roteare il cerchio dell’hula-hop. Un’immagine mai aggressiva, piuttosto divertente o naïf, mai troppo assertiva a costo di apparire quasi intimidita. Alla fine si è addirittura definita «mom-in-chief», che sarebbe come dire la prima mamma d’America. Lo ha fatto lei che invece si identificava come avvocato, che ha insegnato a Barack Obama cosa significa l’impegno sociale, la comunità, i diritti. E per sottolineare che al centro di tutto c’è la famiglia, per non lasciare il copyright alla donna che vorrebbe prenderle il posto, quell’Ann Romney che è vista come un modello di «angelo del focolare», ha detto che le sue figlie sono «tutto il suo cuore e il centro del suo mondo».

 

E pensare che quando l’ho incontrata la prima volta, a Plymouth in New Hampshire, nel gennaio del 2008, mi aveva colpito per la sua forza incontenibile, radicale, quasi incapace di compromessi. Perfino la stretta di mano, a differenza di quella del marito, era vigorosa. E poi ti fissava negli occhi, mai una concessione all’interlocutore. La riunione con un gruppo di insegnanti e di pensionate era in un garage, un tavolo e 50 sedie. Lei parlò a braccio per sessanta minuti esatti, c’era un silenzio totale mentre raccontava che il Paese era «rotto»: «La vita è sempre più difficile per le persone, ma non riusciamo neppure ad accorgercene, costretti come siamo a vivere con la testa sott’acqua». Denunciò l’America «che non riesce a pagare le rate degli studi, che se si ammala finisce in bancarotta, che non mangia mai verdura e cibo sano: ogni anno diventa sempre più difficile per la gente normale riuscire a vivere decentemente, eppure siamo in un Paese ricco, ma il boom c’è stato solo per alcuni».

 

Alla fine la fermai e mi raccontò delle sue perplessità di andare alla Casa Bianca, del prezzo che rischiavano di pagare le sue figlie costrette a una vita innaturale e blindata. Anche oggi conferma di essere stata preoccupata, ma ora pensa che invece valga la pena restare , perché quello è il luogo in cui si può fare la differenza: «Perché il successo non si misura sui soldi che hai guadagnato ma sulla differenza che sei riuscito a fare nella vita delle persone».

 

Si potrebbe dire, con malignità, che Michelle si è imborghesita, che vivere alla Casa Bianca non è cosa a cui si rinuncia facilmente e che la vita di prima nella casa di Chicago ormai non esiste più. Di certo è diventata diplomatica, ha capito cosa gli americani vogliono sentirsi dire, non vuole rovinare le chance di rielezione di suo marito e il tempo l’ha ingentilita. Ma c’è dell’altro: adesso sa che le idee di una vita rischiano di sparire dall’agenda se vinceranno i repubblicani, che non c’è un’altra possibilità. Così, pur con molto garbo, le ha indicate, ha ricordato su cosa lavorano da quattro anni: il diritto delle donne ad essere pagate come gli uomini - prima legge passata da Obama -, il diritto a non andare falliti se ci si ammala, di non dover annegare nei debiti per prendere una laurea, di poter scegliere liberamente sul proprio corpo e la propria salute (sottintendeva il diritto all’aborto), il diritto a perseguire il proprio sogno se si è un immigrato e il diritto di amare chi si vuole (ovvero il via libera ai matrimoni gay).

 

Non ha mai citato gli avversari, è stata quasi restia, ma nell’elenco dei valori e delle qualità che lei e il marito hanno ricevuto dalle famiglie d’origine c’era la sottolineatura di una differenza quasi antropologica: dignità, umiltà, gratitudine, integrità. E quasi a fare da eco alle polemiche sulle tasse mancate di Romney, sui soldi nei paradisi fiscali, ha detto che essere onesti significa anche non cercare sempre scorciatoie e nemmeno provare a costruirsi le regole che ci fanno più comodo.

Quattro anni fa, era uscita dal garage per salire su un vecchio furgone grigio senza scorta, con il portellone che non si chiudeva, insieme a un gruppo di volontari. L’altra notte è uscita dalla scena nel mezzo di un’ovazione, ma con la testa bassa e senza strafare. Cosciente forse che la vera rivoluzione è stata lei, una ragazza del ghetto nero nel cuore del potere bianco, e che la partita non è ancora finita.