Newtown è tutto il mondo

 

L’eccidio di Newtown segna un’importante differenza fra gli Stati Uniti e il resto dell’Occidente, dove il possesso delle armi è fortemente limitato e strettamente regolato. In America ne circolano 270 milioni, e il 40% dei cittadini ne ha almeno una. Anche se decine di studi dimostrano che mettersi in casa un pistola moltiplica per tre il rischio di morire per omicidio e per cinque il rischio di suicidio.

 

Ma non è niente di strano, se pensiamo a quanto succede nel resto del mondo, dove la circolazione delle piccole armi è estesissima e fuori controllo. Nel pianeta circolano almeno 650 milioni di piccole armi, una ogni dieci persone. Che uccidono almeno 500mila esseri umani ogni anno. Uno ogni 60 secondi. 300mila nelle guerre e 200mila per omicidio o suicidio.

 

Sono leggere, facile da usare, da trasportare e da nascondere. Non richiedono quasi manutenzione e durano per decenni. E poi, costano poco: dieci anni fa, in Uganda, potevi scambiare un AK47 con una gallina, in buona metà del mondo lo si può comprare per 10-15 dollari. E hanno anche un’altra virtù: essendo leggere e maneggevoli, possono essere tranquillamente usate anche da un bambino. Come i 300.000 bambini-soldato o le centinaia di migliaia arruolati dalla criminalità organizzata, dalle foreste del Congo alle strade di Los Angeles.

 

Da decenni le associazioni civili, le Nazioni Unite e le ONG si battono per imporre a li vello internazionale una legislazione per controllare il commercio di queste armi, regolando rigidamente anche la concessione di brevetti e di permessi di esportazione. Ma i risultati finora sono stati molto poveri. Tutti parlano di disarmo e di non-proliferazione, ma quando i cinque Membri Permanenti del Consiglio di sicurezza sono anche i paesi che controllano il commercio globale di armi, le cosa diventano più difficili. Al loro fianco, ci sono altri paesi influenti che esportano ciascuno almeno 100 milioni di dollari l’anno in armi leggere: Italia, Germania, Brasile, Austria, Giappone, Svizzera, Corea del Sud, Belgio e Spagna.

 

Di fatto, il mercato di queste armi è raddoppiato di volume negli ultimi quattro anni, arrivando alla cifra di 8,5 miliardi di dollari per il mercato ufficiale. Il mercato nero è stimato in circa due miliardi, ma potrebbero essere anche dieci. La produzione di armi e munizioni leggere coinvolge 1.134 imprese e gli acquirenti sono all’80% dei privati cittadini.

 

Chiunque può permettersi un’arma da fuoco, oggi. E’ un mercato ampiamente drogato dagli enormi sussidi che i governi di tutti i paesi pagano alle imprese del settore. I prezzi rimangono bassi e la diffusione cresce a dismisura. Evidentemente i governi pensano che promuovere l’uso di questi oggetti corrisponda al bene comune.

 

Si potrebbe fare moltissimo, per affrontare il problema, cominciando con l’applicare le leggi che esistono già e facendo sul serio i controlli previsti dai regolamenti. Nella grande maggioranza dei paesi. Non c’è modo di sapere quante armi entrano e in che mani vanno a finire. Inoltre, alcuni stati si prestano volentieri a fare da prestanome per un traffico che poi arriva ai gruppi armati, alla delinquenza comune, ai cartelli criminali, alle milizie.

 

E’ un problema che continua ad aggravarsi perchè ormai, sulle armi, esiste un vuoto giuridico e morale. Noi stessi siamo così abituati e rassegnati alla loro incredibile diffusione che la cosa neppure ci indigna più, se non quando avvengono episodi come quelli di Columbine o di Newtown. Nel 2013 si riapriranno i negoziati per arrivare ad una legislazione internazionale più stringente. Finora tutti i tentativi sono falliti, soprattutto per responsabilità degli Stati Uniti. Chissà che Newtown non porti un podi buon senso.