Provate a spiegarlo

 

Provate a spiegare a uno statunitense che l’imputato può essere condannato, poi assolto, poi condannato, attendere ancora il giudizio e, nel frattempo, stare quattro anni in galera. Che sia un uomo della strada o un fine giurista, comunque vi guarderà come un selvaggio proveniente da qualche superstiziosa e isolata tribù. Va da che se un loro cittadino, come è il caso di Amanda Knox, si ritrova condannato da un simile meccanismo è escluso che te lo consegnino. Il che è anche paradossale, perché quando si trattò di una nostra cittadina, da loro condannata (Silvia Baraldini), non ce la volevano ridare perché convinti che l’avremmo scarcerata. Poi cedettero e il ministro della giustizia (Oliviero Diliberto) andò a riceverla all’aeroporto, manco provenisse dal Gulag. Sicché, non a torto, ci guardano non solo come una tribù inaffidabile, ma anche provocatrice.

 

Il bello (si fa per dire) è che a questa roba incresciosa avevamo posto rimedio, con la legge numero 46 del 20 febbraio 2006. Meglio nota come “legge Pecorella”. Stabiliva che in caso d’assoluzione l’accusa non potesse presentare ricorso altro che in cassazione. Il ragionamento era elementare: se il codice, recependo il modello accusatorio, stabilisce che la condanna si può infliggere solo ove non ci sia alcunragionevole dubbio” circa la colpevolezza, e se un tribunale o una corte hanno già assolto l’imputato, è del tutto ovvio che da in poi quanto meno è ragionevole il dubbio. Quella legge fu rimandata alle Camere, perché il presidente della Repubblica (Carlo Azelio Ciampi) aveva dei dubbi. Fu riapprovata, quindi emanata. Poi è stata la Corte costituzionale, con tre sentenze coordinate e successive, a farla a pezzi. La ragione di fondo è questa: il processo è uno solo, quindi se ti assolvono in primo o secondo grado non per questo sei innocente, giacché devi attendere che si concluda l’iter, dentro il processo le parti devono essere pari, quindi: se può ricorrere la difesa deve potere ricorrere anche l’accusa. Provate a farlo capire a uno statunitense, il quale ritiene ovvio l’ovvio: il processo è quello che si fa in aula, nel contraddittorio fra le parti, e si conclude con una sentenza, talché, se sei assolto, lo Stato perde il diritto, per sempre, di accusarti (double jeopardy), e ciò è profondamente ragionevole perché non è affatto vero che le parti hanno eguale forza, ma quello dello Stato è immensamente superiore a quella del cittadino.

 

A questo si aggiunga che, del tutto coerentemente, negli Usa non hanno la cassazione, che ha un senso nei sistemi di civil law, ma nessuno in quelli di common law. Nei secondi la regolarità del procedimento è garantita dal giudice, che presiede e non giudica (per questo tipo di reati). Il ricorso in cassazione, previsto dalla Pecorella, era incentrato non sul giudizio di merito, ma sulla regolarità del procedimento. Da noi, però, la cassazione fa sempre più sentenze di merito, esaminando non la correttezza del processo, ma anche la piacevolezza e ragionevolezza delle motivazioni (che negli Usa, giustamente, non esistono). Queste, a loro volta, sono divenute un fenomeno letterario, che anziché spiegare le ragioni del verdetto si addentrano nell’esame del mondo e degli animi. Roba tribale, appunto, da sciamani.

 

Morale: non ho la più pallida idea (come tutti) di come siano andate le cose, quella sera in cui una ragazza fu uccisa, ma so per certo che dalla giustizia, dopo sette anni, non è giunta alcuna certezza, so, però, che (un po’ come accade con la scellerata riforma del Titolo V della Costituzione) già si pose rimedio, ma poi si abrogò il rimedio, talché, ora, vale la pena rivedere l’intera baracca, perché è dissennata.